venerdì 5 marzo 2010

IL PROCESSO DI LAVORO 2010

Leggetevi bene questo appello dei giuristi democratici tenetelo in considerazione e fatelo presente ai ricorrenti nel caso doveste iniziare nuove cause di lavoro, ma soprattutto ricordatevelo quando andrete a votare.

Rosella Arditi

La nuova disciplina delle spese di lite, introdotta dalla L. 69/2009, manifesta ricadute rilevanti e gravi, nel campo della giustizia del lavoro, che non sono state fino ad ora còlte, né tra gli operatori del diritto applicato, né in dottrina.
I promotori della presente iniziativa intendono proporre la riflessione sul tema e sollecitare l’ampio dibattito che esso merita, sia mirando ad un’interpretazione compatibile con le specificità della giustizia del lavoro, sia, per quanto il primo intento non sia possibile, per elaborare una articolata eccezione di incostituzionalità.

I “nuovi” precetti contenuti negli artt. 91, 92, 96 cpc riformati, trasposti dal processo civile, entro cui soltanto, apparentemente, sono stati pensati, al processo del lavoro cancelleranno di fatto i cardini della disciplina speciale, costituiti dalla funzione di tutela asimmetrica, sia sostanziale che processuale, della parte strutturalmente più debole del rapporto e che ricorre alla giustizia per invocare il riequilibrio tra forze che la realtà ribadisce diverse.
Nel processo del lavoro l’attore è sempre il lavoratore (o il sindacato) che chiedono al Giudice di “ristabilire” la giustizia già violata dai poteri fattuali del datore di lavoro. Ancora, altra peculiarità del processo del lavoro è costituita dal fatto che il lavoratore attore agisce spesso “a controprova” (licenziamento, trasferimento, impugnazione sanzioni disciplinari ecc.) e dunque pare avventato e gratuito, almeno in tali casi, addebitargli puramente e semplicemente, come sembra volere il nuovo art. 92 cpc, la soccombenza nella causa.
Di tali principi, del resto, ha tenuto conto la giustizia del lavoro per tutta l’esperienza del processo riformato, facendo larghissimo uso, condiviso e non certo ideologico, della compensazione delle spese “per giusti motivi” nei casi di soccombenza del ricorrente.

1. La prima, rilevante novità introdotta dalla riforma del codice di procedura destinata - o quantomeno potenzialmente idonea - a condizionare pesantemente le sorti della “parte debole” del rapporto di lavoro (e quasi sempre “parte debole economicamente”, nel processo) è quella introdotta dalla modifica del secondo comma dell’art. 92 in ipotesi di soccombenza del ricorrente, che potrebbe indurre il Giudice ad applicare il principio della compensazione delle spese (previa motivazione) solo in ipotesi eccezionali.
Il principio, ragionevole nel processo civile, trasposto senza apparente ponderazione o adattamento nella giustizia del lavoro, ci pare urtare con quelli che per 35 anni sono stati i cardini del sistema speciale: il diritto sostanziale del lavoro, prima ancora che il processo che gli dà effettività, è un diritto asimmetrico, che nasce e vive per tutelare la parte economicamente e strutturalmente più debole e serve per dare attuazione all’uguaglianza attraverso il tentativo di superare gli ostacoli che di fatto la negano, come proclama l’art. 3 co. 2 Cost. Questo, e non ragioni ideologiche, il motivo per cui i giudici hanno fatto sino ad oggi larghissimo uso della compensazione delle spese motivandola con la ricorrenza di “giusti motivi” .
Ove i magistrati non dovessero accogliere un’interpretazione costituzionalmente orientata e comunque coerente con i principi del diritto del lavoro che consenta al Giudice del Lavoro di ravvisare, proprio in tali principi e/o nella natura a controprova della causa, le “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono la compensazione delle spese sarà indispensabile sollevare un’eccezione di incostituzionalità.

2. Ed ancora, è necessario chiarire e delimitare la portata dell’ultimo comma dell’art. 96 cpc. che, - anche in combinato disposto con il nuovo art. 91 cpc - sembra aprire ad un intervento punitivo ed imprevedibilmente quantificabile da parte del giudice, che può oggi “anche d’ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
La “regola” del carico delle spese così codificata, e la vaga possibilità della “punizione” evocata dall’art. 96 cpc, colpiranno poi inevitabilmente i soggetti più deboli economicamente e le domande più “povere”: agli uni ed alle altre il legale responsabile dovrà prospettare possibili costi connessi al complesso gioco processuale (ivi compresa l’ipotesi, ulteriormente pesante, di vittoria in primo o nei primi due gradi di lite seguita dalla soccombenza nel successivo: con liquidazione delle spese, e magari della “sanzione ex art. 96 cpc, anche dei gradi precedenti) che scoraggeranno l’accesso alla giustizia ben più gravemente che non in solo rapporto alla apparente fondatezza o meno della domanda.
Ancora, la riforma scoraggerà enormemente sia le cause per condotta antisindacale, data la notoria ristrettezza economica delle OO. SS. (che saranno sospinte a spostare sul piano conflittuale delicate divergenze sulle regole del confronto, che solo la giustizia deve dirimere), sia ogni tentativo di criticare, in cause pilota, orientamenti giurisprudenziali non condivisibili o di proporre vertenze di principio o di principi, siccome destinate ad affrontare costi e rischi (art. 96 cpc) onerosi.

3. Il nuovo testo dell’art. 91 cpc prevede che se il giudice “accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art . 92”.
Invero la disposizione, a ben riflettere, comporta una previsione solo a sfavore del lavoratore-attore. E' solo a questi che concretamente parla il nuovo precetto, con la minaccia di condanna al pagamento di spese legali (e nemmeno una compensazione) a carico della parte parzialmente vittoriosa: possibilità che fino ad oggi era fermamente esclusa dalla giurisprudenza. Mentre non pare che la norma abbia senso se letta pensando al datore. Non solo perché parla di "domanda", ma soprattutto perché se a soccombere parzialmente sarà il datore, è del tutto ovvio che egli sia condannato alle spese, salvo compensazione - totale o parziale - ex art. 92, in ragione del parziale accoglimento della domanda.
La riforma minaccia poi di “comporsi” con il DDL 1441 Quater -B, appena approvato in terza lettura dalla Camera dei Deputati ed attualmente al riesame del Senato (DDL 1167-B), rendendo risultato doppiamente incongruo, ovvero di lasciare che l’”adattamento” delle norme sulle spese di lite al processo del lavoro sia ritenuto insito nella progettata riforma, nonché di rendere ulteriormente pericolose le norme degli artt. 91 e 96 cpc.
Il testo dell’art. 420 cpc, che il DDL 1167-B si propone di modificare, infatti, prevede che il giudice, oltre a tentare la conciliazione della lite, “formula alle parti una proposta transattiva”, aggiungendo che il relativo rifiuto “senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.
Posto che l’art. 96 cpc, nell’attribuire al giudice, “anche d’ufficio”, il potere apparentemente sanzionatorio richiama l’art. 91 cpc, che fa a sua volta riferimento all’”eventuale proposta conciliativa”, il combinato disposto delle norme (vigenti ed in progetto) potrebbe portare all’effetto che il giudice si determini sia sulle spese, sia sulla sanzione dell’art. 96 cpc proprio perché la parte ha rifiutato la sua proposta conciliativa. Di più: facendo l’art. 91 cpc riferimento all’ipotesi di una domanda parzialmente accolta (“in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa”), è gioco forza, nella giustizia del lavoro ove l’attore è sempre il lavoratore o il sindacato, dedurre che la “minaccia” espressa dai combinati disposti citati sia rivolta proprio e soprattutto a questi ultimi. Con effetti ulteriormente ingiusti a mente dei principi cardine del diritto del lavoro dianzi evocati.
Agli affetti la normativa pare incompatibile con i precetti costituzionali, e segnatamente con quelli degli artt.1. 2, 3, co. 2, 4, 24 e 35, atteso che il “lavoro” nella nostra Costituzione , oltre a costituire uno dei principi fondamentali, è considerato come strumento di realizzazione della persona umana, i cui diritti inviolabili sono riconosciuti e garantiti attraverso “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” .
4. Le novità di cui si è parlato si inseriscono in un uno status quo in cui, paradossalmente, l'onere effettivo delle spese di lite già non grava ugualmente le parti: l'impresa non sostiene l'iva della notula del suo legale (partita di giro); il lavoratore la sopporta come un costo. L'impresa porta il costo della notula (e quello di eventuale soccombenza) in detrazione dal reddito; il lavoratore no. Ciò comporta conseguentemente che l’apparente - già di per sé ingiusto - principio di “parità” delle parti è addirittura fortemente sbilanciato a favore della parte economicamente più forte.
I proponenti chiedono il contributo di idee di tutti i giuristi (avvocati, giudici e studiosi)che condividono queste considerazioni, anche per poter preparare al meglio un apposito convegno urgente (da tenersi entro il prossimo mese di marzo) convegno che vedrà l’intervento, innanzitutto, di chi assumerà il coordinamento scientifico dell’iniziativa.

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